CANTO PRIMO
ARGOMENTO
Di Palagano i fieri abitatori
Vanno a Livorno in cerca di giudizio:
Uno speziale ai prodi viaggiatori
Un topo vende con fine artifizio;
Ma di prigione il topo salta fuori
E fugge in cavernoso precipizio,
Dove un lupo, che v'ha posto dimora,
A Barba Gianni la testa divora.
Canto gli eroi di un suolo modenese,
Lustro e decoro dei villaggi alpini,
Di cui la fama sino agli astri ascese,
E guadagnò d'Averno anche i confini.
Palagano si chiama il
bel paese;
Patria di geni e di cervelli fini,
Che s'illustrar con clamorosi fatti,
E il nome ambito meritar di matti.
Musa, che i manicomi ognor abbellì
Di tua vaga presenza, e agli avventori
Cortesemente sgangheri i cervelli,
Per farli tuoi degnissimi cantori;
Tu che all'orecchio adesso mi favelli,
E mi prometti onor, fama ed allori,
Siedimi, o Musa, siedimi d'accanto,
E fammi degno dell'Eroe che canto.
Dell'Appennino fra le balze orrende,
Lungo la destra riva del Dragone,
Un clivo delizioso si distende.
Che delle Grazie sembra la magione;
Quivi natura preparò le tende
Ad un'eletta stirpe di persone,
Belle di corpo, senza macchia o vizio;
Ma prive affatto affatto di giudizio.
Se ne avvidero anch'esse, ed occultare
Non potendo ai vicini il gran difetto.
Procurarono almen di riparare
La mancanza del ben dell'intelletto;
E per condurre a fine l'alto affare,
Un dì festivo a pieni voti eletto,
Si radunar all'ombra di un gran noce.
E il vecchio Bortolino alzò la voce :
« Fin da ragazzo udii parlare un giorno
Da un tal, che avea girato mezzo mondo,
D'un paese che chiamano Livorno,
Posto delle montagne in fondo in fondo...
Qui maghi e fate han placido soggiorno
E di sapienti è sparso il suol giocondo :
In mezzo a tanta roba poffarbio!
Che vi sia del giudizio il credo anch'io.
Per cui, figlioli, la mia corta vista
Darebbe di mandare in quel paese
Qualcuno del giudizio alla conquista :
Faremo una colletta per le spese
E per aver di merce una provvista...
Eppoi vedrete che al più al più fra un mese
A noi di fronte, gli altri montanari
Saranno tanti stupidi somari ».
A tal proposta, tutta l'assemblea
Mandò un evviva tal che scosse i monti.
« Si parta sul momento!... » ognun dicea,
« Partiamo tutti, pria che il sol tramonti!...
Ma intanto il vecchierello ne scegliea
Una mezza dozzina dei più pronti;
E per guida die loro Barba Gianni,
Uomo, prudente e già avanzato d'anni.
Fan provvista di
pane,
vino e torte,
Indossano una pelle di montone,
Calzan grossi stivali e braghe corte
I sette bravi, e impugnano un bastone;
Poi si mettono in traccia della sorte.
Viaggiando per incognita regione;
Finché, sull'imbrunir del quarto giorno,
Giungono in Piazza Grande di Livorno.
Pieni di meraviglia, a esaminare
Presero ogni palazzo ed ogni via;
Quando, venendo a caso a capitare
Sull'uscio aperto d'una farmacia,
Tanti alberelli e vasi a contemplare,
Dice il Barba ai compagni : « In fede mia
Vendono del giudizio in quella stanza!... »
E per primo entra dentro con baldanza.
Vedendo quivi comparir repente
Quei visi arcigni, quei modelli alpini,
Il farmacista impaurir si sente,
Perché li crede tanti malandrini,
E sta lì per gridar : « Accorri gente! »
Ma Barba Gianni, con graziosi inchini,
Dice : « Signor padron dell'edifizio,
Si venderebbe forse qui il giudizio? »
Alla richiesta di novello conio,
S'accorse lo speziale che dovea
Farla con gente senza comprendonio :
E siccome in malizia egli potea
Dar qualche punto anche a Monsu' Demonio,
Gli venne in mente una felice idea :
E s'affrettò a risponder : « Signor sì,
Il giudizio si vende proprio qui.
Ma costa un occhio!... voi non lo sapete,
Che di tal merce fate acquisti rari... »
« Costi quello che vuol!... che ci credete
Uomini privi affatto di denari?
Fate buona misura, eppoi vedrete... »
Ma il farmacista allora : « Adagio, cari,
Perché ci vuol del tempo a prepararlo,
Ed ingegno ci vuole ad imballarlo.
Ma per farvi un piacere, io posso tosto
Mettere in opra i miei profondi studi :
E (tanto per accaparrarmi un posto)
Vi farò spender sol duecento scudi,
Senza guadagno mio, pel puro costo;
Voi però meco non sarete crudi,
E ritornati alle vostre montagne,
Mi spedirete un sacco di
castagne.
Quei montanari, a tante gentilezze,
Dalle nubi credeano di cascare;
E, con mille ridicole carezze,
Presero il farmacista ad encomiare;
Ma il Tosco, che al veder tali stranezze,
Dalle risa sentiasi soffocare,
Disse : « Stasera in pace mi lasciate,
E domani a nov'ore ritornate... ».
Usciti appena i creduli alpigiani,
Die sfogo al
riso il furbo cittadino,
E lieto stropicciandosi le mani
Fece pigliare un vivo topolino,
Che, ben pasciuto, chiuse l'indomani
In un bucherellato scatolino;
E quando ritornarono i clienti,
Glielo porse, con questi avvertimenti :
« Qui dentro, amici, avete la cuccagna;
Qui sta chiuso il giudizio : ma badate
Di non l'aprir per via. Giunti in montagna,
Tutta la vostra gente radunate
All'aria aperta, in libera campagna :
Aprite allora, e forte respirate;
Che il giudizio entreravvi nei polmoni,
E diverrete tanti sal... amoni ».
Riconoscenti, quei del gran messaggio,
I cinquanta sborsar marenghi d'oro,
Ripreser poscia verso i monti il viaggio,
Inni cantando in alternato coro
E dovunque lasciando un certo saggio
Che il giudizio portavano con loro.
Ma, giunti sul confin del lor paese,
Barba Gianni fé sosta, e a dir imprese :
« Amici, se il giudizio tutto quanto
Noi spartiremo fra la nostra gente,
Tutti avrem di sapienti uguale il vanto.
Giudiziosi sarem tutti egualmente;
E noi stessi, che abbiam viaggiato tanto,
Non avrem di special proprio un bel niente...
Pazzi due volte, or che lo possediamo,
Se più degli altri non ne approfittiamo ».
Plaudiron tutti, e in cavernoso loco,
Fra piante, sassi e sterpi bene ascoso,
Scese il felice stuolo a poco a poco,
Palpitante, guardingo e silenzioso;
Quivi, d'incerta luce al raggio fioco,
Trasser fuori il deposito famoso,
E tremanti si poser tutti intorno
Ad aprir il giudizio di Livorno.
Ma schiuso appena, il topo di repente
Saltò dentro una tana, fra i burroni.
Lasciando li la compagnia dolente
A far la bella parte dei minchioni...
Come presi da orribile accidente,
Sulla vuota cassetta, immoti e proni
Restar a lungo, poscia lamentarsi
Cominciarono e il capo a stropicciarsi.
Ma Barba Gianni, l'uom dal genio pronto,
Disse : « Figliuoli miei, cosa facciamo?
II giudizio ci ha fatto quest'affronto,
Perché al padron disobbedito abbiamo :
Ma disperarsi ormai non torna il conto,
E le lagnanze riescon tutte invano;
Spianiamo dunque l'avvilita faccia,
E del nostro giudizio andiamo in traccia.
Questa caverna, lo vedete bene,
E' fonda e stretta,
pure non temete
Ch'io saprò penetrarvi senza pene :
Dei piedi al collo voi mi legherete
Il cinto, che le braghe ci sostiene,
Poi giù nel buco mi penzolerete,
Colla testa in avanti, e quando avrò
Preso il giudizio, un urlo vi farò.
Obbedito fu il Barba, e scivolare
Lo fecero i compagni pel dirupo;
Ma lì dentro venuto era a cascare,
Per sua disgrazia, un affamato lupo,
Il qual, com'ebbe visto penzolare
Un corpo umano in quell'abisso cupo,
Nel suo cuore bestial menò gran festa,
E in un boccone gli troncò la testa.
Credendo gli altri sei che il camerata
Stesse laggiù per tesser degl'inganni,
Cominciarono a urlar all'impazzata :
« L'hai trovato il giudizio, Barba Gianni?
O vuoi farne tu solo una spanciata,
Che ti possan pigliar cento malanni! »
Poi bruscamente lo tiraron su...
E la testa? ...la testa non l'ha più!...
Ma, sfogata la prima meraviglia,
Quella testa dié luogo a gran questione :
� L'avea quando partì dalla famiglia?.
� Sì l'avea... � Non l'avea per Baccone
Così ne nacque un fiero parapiglia,
Perché ognuno voleva la ragione;
E stavan già per dar principio ai pugni
Ed ammaccarsi gli abbronziti grugni.
Quand'uno prese a dir : « Lasciate fare,
Amici, non abbiate tanta fretta,
Che a sua moglie lo vado a dimandare ».
E salito su amena collinetta,
Donde il villaggio si potea mirare.
Con voce strana prese a urlar: « Marietta!!!
Allorché Barba Gianni venne nosco
Avea la testa, o l'ha lasciata vosco? »
La moglie udì e rispose : « A parlar schietto,
Fra le mani non mi è mai capitata...
Andrò a veder se l'ha lasciata a letto... »
Ma poi tornò a gridar tutta affannata :
« Noe, noe, non c'è davvero; io ci scommetto
Che a Livorno se l'è dimenticata :
Tornate indietro, fatemi il piacere,
E se si trova andate un po' a vedere ».
Maledicendo la sorte funesta,
Lasciò lì il monco Barba, e, a precipizio
Tornò a Livorno la compagnia mesta :
Andò del comprendonio al noto uffìzio,
Per ricercarvi la perduta testa
E chieder nuove del perso giudizio;
Ma confortolli tosto il buon Toscano,
E così prese a dir,
soave e piano :
« La testa qui non la lasciò davvero
Quel vostro amico di memoria corta;
Ma questo, o cari, è un male assai leggiero,
Testa più testa meno, poco importa :
Del giudizio non datevi pensiero,
Perché l'avete proprio sulla porta;
Dentro ai vostri confini si nascose,
Per insegnarvi a fare grandi cose ».
I montanari, alla felice nuova,
Dimenticar la testa del compare,
E il giudizio novel misero a prova.
Volendo a lor talento regolare
I tempo del sereno e della piova,
Presero un'altra luna a fabbricare;
Come vedremo nel canto secondo
L'anno venturo, se saremo al mondo.